I Signori della NBA

I SIGNORI DELLA NBA: Gregg Popovich

Una personalità colta e curiosa, coraggioso e dalla leadership infinita, un uomo duro e gentile, un coach autentico che trasforma la squadra in una famiglia.

Maria Barone
16.03.2021 15:07

Spesso capita di ritrovarsi ai piedi della Statua della Libertà o al 50° piano del Time Square e osservare dall'alto la gente percorrere in lungo e largo immense vie. Spesso, capita semplicemente di trovarsi di fronte al canestro, di contemplarlo in silenzio, attendendo una qualsiasi risposta a domande non fatte.

La bellezza e la maestosità di questi momenti è tale da non riuscire a descriverla con le parole, ed è questo quello che accade quando ci troviamo di fronte ad una personalità di un certo spessore: si rischia di ritrovarsi nella sconcertante situazione di avere una montagna di materiale a cui attingere, ma di non riuscire comunque ad entrare in sintonia con il personaggio. Figuriamoci poi se il soggetto in questione porta il nome di Gregg Popovich.

Classe 1949, una personalità colta e curiosa, capace di trovare il buono perfino nelle difficoltà, coraggioso e dalla leadership infinita: Gregg Popovich è questo e altro ancora, un uomo duro e gentile, un poliedrico, un coach autentico che trasforma la squadra in una famiglia, un uomo per il quale:

“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.

Nelle interviste rilasciate nel corso degli anni il suo rigido e a tratti irritante formalismo ha creato non poche situazioni di imbarazzo con gli interlocutori. Tant’è che per via dei suoi restii comportamenti, non è paragonabile a nessun altro, né tanto meno altri reggerebbero un confronto degno di così tanto onore e rispetto: non è Pat Riley, ne tanto meno Phil Jackson, non lo vedremmo mai probabilmente far comunella con un ipotetico Magic Johnson o Larry Bird.

Gregg è la silenziosa altra metà della pallacanestro che adori osservare a discapito di un atteggiamento cinico che trasuda anni di esperienza e tutta la passione che si può per questa maledetta palla a spicchi. Abbiamo a portata di mano così tanto materiale che riguarda Pop che potremmo perderci proprio come si fa di fronte ad un disordinato album di fotografie: i racconti dei giocatori e degli assistenti, ci dicono molto sulle sue idee e le sue passioni lasciate un po’ qua e un po’ la come briciole di pane da raccogliere lungo il sentiero, per costruire un ritratto che non potrà mai essere completo.

Sfogliando questo famoso album dei San Antonio Spurs, notiamo fotografie che ci dicono che Popovich ha avuto bisogno di almeno nove anni e tre titoli NBA per essere considerato allo stesso livello di mostri sacri come Red Auerbach, Riley o Jackson. Spesso contestato, il cammino degli Spurs verso la gloria è stato come percorrere un tortuoso sentiero fatto di pericolose sbandate e bivi dove l’allenatore e di conseguenza la squadra, sono stati a un passo dal prendere la direzione sbagliata.

Per molti Pop era quell’uomo che prepotentemente aveva preso un posto che non gli spettava, per i pochi era l'uomo in grado di prevedere le cose, di cambiarne il corso e anticipare il tempo. Avido nell’inseguire i suoi interessi in campo, mai disposto a scusarsi per le sue idee e a farsi intrappolare in schemi e comportamenti imposti dall’esterno.

Fedele, come pochi alla disciplina e alla convinzione che in una squadra il rispetto sia il fondamento per realizzare un’idea. Questa forte e cinica personalità ha fatto si che la Sua Squadra (allenatore della stessa dal 1996) sia una di quelle squadre che “Non muore mai”, ciò significa: Pop goes serbian" (un modo di dire creato dallo stesso Pop per descrivere la situazione in cui il coach devasta mentalmente gli atleti d’innanzi ai suoi compagni) perché vuole capire su chi può fare affidamento. 

“Un modo come un altro per farti accettare e capire dagli altri, perché i tuoi stessi compagni alla fine non vorranno nessun altro accanto se non te”.

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