Una notte eterna: il saluto di Kobe Bryant
Esattamente cinque anni fa Kobe Bryant scolpì nella storia della NBA una performance di addio a dir poco leggendaria, capace di far sussultare il cuore di tutti.
La mentalità del Black Mamba è una peculiarità ormai ben nota, un intreccio frenetico tra l’amore per il basket e l’ossessione per la vittoria che Kobe Bryant ha forgiato nell’ideale comune nel corso dei suoi venti anni di attività in NBA. Una firma d’autore certo non priva di critiche da parte della massa: è individualista, ha un carattere burbero, è troppo sicuro di se e soprattutto ha la testa troppo dura per ammettere i propri errori; queste sono solo alcune delle etichette che tutti noi abbiamo sentito rivolgere in passato a quel numero ventiquattro così iconico.
Il più grande uomo e giocatore ad aver mai indossato la casacca gialloviola secondo Magic Johnson. Un commento che, data la fonte da cui proviene, tende ad essere considerato come un dato oggettivo più o meno da qualsiasi spettatore, indifferentemente dalla propria fede cestistica. Si perché proprio quella testa troppo dura ha unito e continua tutt’ora ad unire milioni di persone: Kobe Bryant è l’espressione più alta, pura e coinvolgente che quegli anni post-jordaniani avrebbero mai potuto offrire al mondo intero.
Poco importa se eri un suo avversario o un suo alleato, tutti volevano essere Kobe.
Un avversario da superare non un nemico da abbattere, era questo il pensiero comune che dopo diciannove anni di attività univa l’intera NBA nel corso dell’ultima stagione del Black Mamba. Se l’ultima partita di Bryant fu un evento a se, bisogna infatti ricordare che l’intera stagione fu percepita da tutti come il più degno tributo al più umano dei supereroi d’oltreoceano: tutte le franchigie, tutti i giocatori, tutti gli addetti ai lavori e tutti i tifosi sentivano il dovere morale di tributare una standing ovation d’addio.
Si arrivò dunque a quel 13 aprile del 2016 presso lo Staples Center di Los Angeles con un atmosfera tutt’altro che normale. Kobe Bryant saluta l’intero palazzetto, autografa quel parquet così familiare, pronto per dare inizio all’ultima danza del Black Mamba.
Fa sorridere che l’avversario designato siano gli Utah Jazz, vittime eccellenti di quel divino Michael Jordan che solo due decenni prima appariva così lontano dal poter essere anche minimamente replicato. Ebbene cinque anni fa in questo giorno, un po' tutto il mondo NBA aveva l’impressione di aver dolcemente abbracciato il fratello minore di His Airness.
Un saluto che come succede in questi casi, è un mix d’amore e malinconia. Si intravedono molti volti noti nei pressi della locker-room dei Lakers, da Jay-Z e Adam Levine a Kanye West, tutti intenti ad accaparrarsi qualche cimelio della serata autografato da Kobe Bryant.
Mark Madsen, a quel tempo assistant-coach losangelino, parlò così hai microfoni di ESPN:
“Si viveva una strana aria nel pre-partita. Kobe era di ottimo umore, tutti attorno a lui avevano un fare amichevole. Sembra strano ma la maggior parte delle persone voleva così tanto un autografo da lui che l’imbarazzo e la timidezza si potevano tastare con mano. Anche i grandi giocatori che erano al palazzetto, tutti volevano essere coinvolti in qualche modo nella sua ultima partita. Io gli chiesi scherzando di fare almeno 30 punti e lui mi sorrise dicendo che non voleva giocare male quella partita. Poi si incamminò verso la nostra panchina”.
Dopo uno 0 su 5 nei primi minuti del quarto d’apertura, Bryant piazza ben 15 punti nel corso di quattro minuti, chiudendo all’intervallo con 22 punti a referto: l’obiettivo dei fatidici 30 punti era ormai ad un passo. La Mamba Mentality però non è certo famosa per la propria arrendevolezza così, con i suoi Lakers sotto di 10 punti nel terzo quarto e i fatidici 30 appena segnati, Kobe fa capire cosa vuol dire possedere dentro di se quell’ossessione per la vittoria.
LA è infatti sotto di 12 lunghezze allo scoccare del quarto quarto mentre il personal score del ventiquattro segna quota 40 ma niente paura, il Mamba aveva appena cacciato i denti per intimidire la propria preda; così tra una tripla sparata da quasi 8 metri e un mid-range jumper arriviamo a 45 punti. Nonostante ciò Los Angeles continua ad essere indietro di 10 lunghezze nel punteggio e la sconfitta comincia ad assumere delle sembianze sempre più concrete.
Da quel momento in avanti ci sarà solo un protagonista sul parquet, Kobe Bryant. L’onomatopeico swish della retina si fece sentire ancora una volta dall’arco dei 3 punti e con due iconici mid-range jumper oltre che con due viaggi dalla lunetta dei tiri liberi. Il risultato, a partita ancora in corso, dettava 56 punti a referto e Lakers ad un solo punto di distanza da Utah. Seguirono infine l’ennesimo jumper e l’ultimo, romantico, viaggio in lunetta.
Al termine della partita Los Angeles festeggiava un eroe senza tempo degno di un’impresa altrettanto eterea, 60 punti:
“Sto vivendo un sogno, vi prego non svegliatemi”
Poche parole per Kobe ma dense di significato, soprattutto se accostate a quello sguardo da fanciullo impertinente e sfrontato che si ritrova dentro il corpo di un trentasettenne alla 20° stagione in NBA.
La stessa sera Monty McCutchen (storico arbitro della NBA) disse:
“Mi chiedo se ciò che ho visto questa sera sia reale, per quanto mi riguarda penso che l’unica prestazione individuale simile a quello che Kobe Bryant ha messo in scena questa sera siano i 55 punti segnati da Jordan al Madison Square Garden”.
Il 13 aprile del 2016 Kobe Bryant ci ha dimostrato, con una semplicità e una purezza degna dell’animo di un bambino, cosa vuol dire amare con tutto se stesso quella semplice palla arancione. Un’amore incondizionato, talmente forte da abbattere qualsiasi senso di appartenenza e far tramutare i sogni di ognuno di noi nello sguardo, nella mente e nel corpo di un unica persona.
Oggi come 5 anni fa, tutti noi stiamo ancora facendo il tifo per quell’esile ragazzo proveniente dai più disparati campetti di Philadelphia. Le voci in coro si uniscono e da qualunque parte del mondo si sente riecheggiare una sola frase: We love you Kobe!
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