Gennaio 1981. Mosca, Russia.
Il gelido inverno russo ha invaso la città, ogni spostamento è reso impossibile dalla tempesta di neve che si sta abbattendo sulla capitale dell’URSS. Per questo motivo Anatolij si sta allenando in perfetta solitudine. Il campionato russo è fermo a causa del maltempo, ma il giocatore simbolo del CSKA Mosca non ha voluto smettere di migliorare il suo arresto e tiro. Quando il pallone accarezza la retina per la milionesima volta, la porta del palazzetto si apre con veemenza.
Anatolij lascia cadere le braccia stupefatto. Leonìd Il’ìč Brèžnev, segretario del Partito Comunista, si avvicina al lungo giocatore con quella che sembra essere a tutti gli effetti una piccola radio. Senza proferire parola il segretario di stato accende il piccolo marchingegno elettronico avvicinandolo all’orecchio di Anatolij. Le note di “Ease on Down the Road” di Michael Jackson escono fuori inondando il palazzetto in pochi istanti, rimbalzano sul parquet in legno per poi schiantarsi nelle orecchie perplesse del lungo cestista che, completamente spiazzato, non sa ancora cosa pensare.
“Conosci questa canzone?” Leonìd Il’ìč Brèžnev interrompe il propagassi della musica pronunciando le prime parole dal suo ingresso nel campo di allenamento. “No signore, non l’ho mai sentita, chi è che canta?” Il segretario di stato aggrottò la fronte cercando di risponde nella maniera più esaustiva possibile. “Il problema non è chi canta, il problema è chi l’ascolta”.
Siamo nel pieno della Guerra Fredda, gli Stati Uniti stanno facendo guerra alla coalizione comunista del Patto di Varsavia. Una scontro senza armi, fatto di sfide allo spazio, di boicottaggi e competizioni sportive, soprattutto nel basket. L’URSS vuole dimostrare al mondo di essere più forte proprio nello sport inventato dagli Americani. Il sistema sovietico sta scricchiolando sotto gli attacchi statunitensi che trasmettono musica pop e messaggi su soldi e sesso facile ai confini con l’ Ucraina. Bisogna vincere il mondiale.
L’URSS ha una squadra molto forte. Tkačenko e Anatolij sono i cardini di una nazionale che si allenerà per sei mesi, tutti i giorni, per preparare al meglio l’evento Mondiale. Gli USA sono rappresentati da una squadra molto giovane, ma allo stesso tempo molto competitiva, in cui, un giovane Doc Rivers, è l’elemento di spicco.
Aprile 1982. Colombia.
Manca ancora qualche mese alle braccia alzate al cielo di Paolo Rossi e all’urlo di Tardelli. Le attese della vigilia sono state rispettate ed in finale si scontreranno URSS e Stati Uniti d’America. La partita è tiratissima, punto a punto. L’atmosfera non sembra neanche quella di una partita di basket, gli spettatori sembrano assistere ad un evento che sembra quasi esulare dallo sport in se.
Ogni canestro viene salutato con un’ovazione. La partita prende piede sulla lama di un coltello. L’URSS sembra avere in mano la partita quando, a 30″ dalla fine, conduce per 95 a 88, ma un fenomenale Doc Rivers riporta gli Stati Uniti sotto nel punteggio, fino al 95 a 94. Quando mancano 9″ alla fine nessuno nel palazzetto colombiano ha il coraggio di parlare.
La nazionale russa ha gettato al vento tre possessi di fila ed ora, dopo un rimpallo, gli arbitri optano per una palla a due al centro del campo. Palla conquistata dagli Stati Uniti che immediatamente si affidano a Rivers che prende un tiro dal palleggio a fil di sirena. Primo ferro. L’URSS è campione del mondo. Il primo ad alzare le braccia al cielo è proprio Anatolij, che dopo aver marcato Doc Rivers nell’ultimo possesso, ha seguito la palla fino alla fine sperando non entrasse mai.
Un giovane tifoso colombiano ha assistito a tutta la partita. Finita la gara scrive su un libercolo una frase che farà il giro del mondo.
“Il mondo non è uno spettacolo, ma un campo di battaglia.”
Gabriele Manieri