Nell’immaginario collettivo, Karl Malone è sicuramente uno dei più grandi giocatori di basket che abbiano mai calcato un campo di Nba. E non c’è dubbio che sia una considerazione più che corretta.
Dotato di una rara combinazione di forza, agilità, sensibilità della mano e stazza, Malone è stato due volte MVP ed ha totalizzato 36.928 punti in carriera, secondo solo a Kareem Abdul-Jabbar.
Le sue abilità gli hanno permesso di essere sempre competitivo negli anni 90, in cui non ha mai mancato l’accesso ai playoffs. Non si può considerare il migliore però, dal momento che la sua unica colpa di essere contemporaneo a Jordan ha praticamente azzerato le sue vittorie.
Selezionato nell’All-NBA First Team per undici anni di seguito, Malone non usava solo il fioretto sul parquet. I suoi modi potevano essere anche rudi, e la sua voglia di vincere facevano di lui un agonista sempre al limite negli scontri fisici. Come sempre in questi casi però, le botte che dai raramente non tornano indietro. Il suo stile di gioco molto aggressivo facevano di lui il bersaglio di duri colpi e colluttazioni violente.
Eppure nei suoi 18 anni a Utah, sono solo 6 le gare saltate per infortunio o malattie. D’altronde, per uno nato ultimo di 9 fratelli in un paesino della Louisiana, a lungo alle prese con i problemi della segregazione razziale, per uno che a 14 anni ha visto il padre suicidarsi, costretto a vivere in fattoria tra mille difficoltà, di certo non può essere un dolore fisico a rappresentare un vero ostacolo.
Nella fattoria di casa, sviluppa sin da subito un’attitudine al duro lavoro. Costruisce il suo fisico e nel frattempo si iscrive alla Summerfield High School, che conduce alla vittoria di tre titoli consecutivi. Il passo successivo è il college, più precisamente la Louisiana Tech University, porta principale per la Nba. Dopo un anno di lontananza dai campi per i pessimi voti, si dimostra uno dei migliori prospetti collegiali.
Dichiaratosi eleggibile nel Draft 1985, è praticamente certo di dover andare a giocare per i Dallas Mavs, quindi affitta una casa in centro. Ma….
” With the 8th pick, Dallas Mavericks select Detlef Schrempf…”
Viene scaricato all’ultimo momento dai texani; il suo turno giunge alla 13esima scelta, quella degli Utah Jazz. Uno scherzo del destino che lo porta al fianco di John Stockton, che aveva conosciuto un anno prima ad uno stage di allenamento dei nazionali, e col quale forma una coppia perfetta. Il loro modo di giocare in Pick and Roll segna la storia del gioco.
Anche il coach Frank Layden gli dà una mano, instaurando con lui uno stretto legame, simile a quello tra un figlio ed un padre, figura autorevole e consigliera che a Karl era sempre mancata.
Se poi ci aggiungete la grande motivazione di voler dimostrare a tutti di esser stato selezionato con una chiamata troppo alta….
Diventa ben presto The mailman, perchè la regolarità con cui mette la palla nel canestro avversario ricorda quella di un postino. Alla prima stagione viene inserito nel primo quintetto Rookie e trascina i suoi Jazz ai play-off.
Nel 1988 sulla panchina di Utah arriva Jerry Sloan. Proprio come il postino, il nuovo head coach è un uomo che ha perso il padre da giovane, cresciuto ed abituato a vivere nelle difficoltà, con un’estrema voglia di eccellere. I due si stimano e si apprezzano, dando vita con Stockton, silenzioso e dunque sempre concorde, ad un trio delle meraviglie.
Per il postino, la svolta personale arriva a cavallo del 1990; la sua immagine agli occhi del mondo Nba subisce una completa rivoluzione. La frequente attività benefica e la toccante rivelazione televisiva del suicidio del padre quando lui aveva 14 anni, lo rendono un personaggio amato dal pubblico. Una figura amata e benvoluta, specialmente nella comunità di Salt Lake City.
Nel 1998 però, alcuni tabloid nazionali fanno uscire delle notizie risalenti a qualche anno prima, che sconvolgono la sua vita privata. Tre figli segreti e non riconosciuti, due gemelli da una donna ed un piccolo da un’altra ragazza, tutti nati poco dopo il suo periodo collegiale. I processi avevano attestato alte probabilità che Malone fosse il padre, nonostante il cestista avesse continuato a rifiutarsi di sottoporsi al test del DNA, tenendo tutto nell’ambito privato, accordandosi con le donne da cui aveva avuto i piccoli.
Una vicenda clamorosa, che mina la credibilità del simbolo dei Jazz in qualità di uomo dall’immagine buona e limpida.
Col passare degli anni, però Karl riconosce gli errori del passato, e si riconcilia con i propri figli. Instaura con loro un bel rapporto, non facendo mancare una figura paterna durante la loro crescita, qualcosa che lui stesso aveva sperimentato sulla propria pelle.
A livello cestistico, il punto più alto della sua carriera, oltre agli ori ottenuti con la Nazionale, lo tocca nella seconda metà degli anni 90′, trascinando alle finali NBA i suoi Jazz, per ben due stagioni in fila.
Ad avere la meglio però, è la sfortuna. Nella prima occasione , i Bulls di Jordan, Rodman e Pippen sfruttano al meglio il fattore campo e si aggiudicano il titolo.
Anche la seconda volta la storia non sorride a Utah. Sotto per 3-2 nella serie, ma con l’inerzia tutta a proprio favore, in gara-6 i Jazz conducono sul risultato di 86-85 a pochi secondi dalla sirena. Il destino sembra finalmente poter cambiare, ma il postino si fa rubare il pallone da Jordan, che segna i due punti della vittoria Bulls, 87-85. Svanisce così la possibilità di vincere l’anello.
Malone vince ancora il titolo di MVP della stagione nel 1998-1999, ma non riesce più a portare i Jazz in finale. Così, quando al termine della stagione 2002-2003 Stockton si ritira, Karl si trasferisce ai Los Angeles Lakers, in squadra con Kobe Bryant, Shaquille O’Neal e Gary Payton.
Tutti i favori del pronostico sono per i californiani. Il postino è però costretto a saltare buona parte della stagione regolare per un infortunio, una novità assoluta per un giocatore assolutamente integro fino ad allora. Nonostante ciò i Lakers arrivano alle Finals, ma si devono arrendere per 4-1 ai Detroit Pistons. La maledizione ha avuto ancora la meglio: Malone chiude la carriera senza anello, diventando la più grande testimonianza che a volte, si può essere grandi anche senza aver trionfato.