Eraclito: “Non ti bagnerai mai nello stesso fiume due volte”. Cartesio: “Cogito ergo sum”. Rasheed Wallace: “Ball don’t lie”. Diceva così in un servizio il grande avvocato Buffa che omaggiava uno dei protagonisti più particolari della storia della palla a spicchi, per l’appunto Rasheed Wallace.

Un omone di 2 metri e 13 che ha sempre creduto in qualche modo alla giustizia divina, a un karma sportivo, secondo la quale la “palla” non mente e prima poi ti torna quello che ti meriti. Concetto tutto suo, che è entrato di diritto nella storia del gioco e che conoscono tutti i grandi fans della NBA e della pallacanestro in generale. Ripercorrere la sua storia non è cosa facile, però, un comune giocatore inizia la carriera, vince si ritira, può diventare un campione oppure no. Troppo facile vero Sheed? No, non fa per lui una storia comune…

Nato nelle note streets of Philadelphia nel 1974 Rasheed Abdul Wallace è figlio di donna Jackie. Già da ragazzo viene esaltato nelle high school alla Simon Gratz dove a soli 14 anni entusiasma tutti, ma, una caratteristica gli rimarrà costante nella sua carriera: una leggera difficoltà a rapportarsi con le autorità. Al momento di scegliere l’università in cui giocare Sheed riceve centinaia di lettere e la madre ancora una volta sarà protagonista, aiutando il figlio a scegliere la UNC (North Carolina).

Proprio lì, famose le parole di coach Dean Smith che dirà di lui come alcuni suoi precedenti coach: Non siamo noi che alleniamo lui è lui che allena noi, è troppo avanti”. Tuttavia non riesce a vincere con la squadra del college e dopo soli due anni si rende eleggibile al draft del 1995 dove viene scelto con la quarta chiamata assoluta dai Washington Bullets.

È l’inizio di un viaggio che lo porterà nella NBA e in sei città diverse: Washington, Portland, Atlanta, Detroit, Boston, New York.  Nella capitale le cose non vanno benissimo, a Portland (allora chiamati Jailers o JailBlazers), invece, inizia a dimostrare il suo valore in campo e fuori, la città quasi ogni giorno poteva ascoltare la sua voce e le sue canzoni rap preferite in un programma radiofonico ideato per lui. Anche lì in 8 anni meravigliosi non riesce a vincere, Spurs e Lakers gli negano il successo di conference. Un altro particolare resta indelebile nella gente di Portland, gli ottanta falli tecnici presi tra il 1999 e il 2000, dato ovviamente senza precedenti.

Sheed, però, la sua rivincita la avrà in una squadra che tutti ricordano come la più organizzata difensivamente degli ultimi 20 anni: i Detroit Pistons di Larry Brown. Hamilton, Prince, Big Ben Wallace e Chauncey Billups i compagni del quintetto che gli hanno permesso di vincere il tanto agognato anello nel 2004. Ah per dirne un’altra, fatto quasi unico nella storia NBA, Wallace gioca solo una partita con la maglia degli Hawks, segnando 20 punti con 6 rimbalzi e 5 stoppate. Viene poi mandato (non proprio l’idea del secolo degli Hawks) proprio ai Pistons. Città che ha sempre amato, e dove verrà sempre ricordato.

Rasheed+Wallace+Derrick+Stafford+Detroit+Pistons+BOsWUnwYsWFx

Nel 2009 passa ai Celtics dove rischia di vincere per la seconda volte l’anello, ma i Lakers di uno straordinario Bryant gli dicono ancora una volta di no in gara-7.  Delusione cocente che contribuirà a tenere il figlio di donna Jackie per due anni lontano dal parquet, solo i Knicks nel 2012/2013 gli danno una possibilità, anche lì non è però andata esattamente come i tifosi della grande mela avrebbero sperato per il titolo. Finita qua? No. Anzi forse sì, chi lo sa con un uomo dal carattere come Sheed, attualmente vice-allenatore dei suoi amatissimi Detroit Pistons del nostro Gigi Datome. Una storia infinita, forse ancora non del tutto finita.

E poi ci sono i neologismi…“I’m a shotter not a shooter” (In breve io la metto voi tirate). Gamers don’t play golf. (I veri giocatori di basket non praticano il golf). E soprattutto c’è Ball don’t lie, perché gli arbitri, il sistema, i general manager possono mentire, possono essere sporchi o corrotti, ma la palla a spicchi mai.

That’s Sheed.

Claudio Battiato