“Il silenzio è fonte di una grande forza”. Nel basket di oggi trovare una rappresentazione concreta di questo aforisma è raro, lo sanno molto bene i San Antonio Spurs, franchigia molto vicina alla filosofia sopracitata.
“Hello darkness, my old friend I’ve come to talk with you again because a vision softly creeping, left its seeds while I was sleeping and the vision that was planted in my brain, still remains, within the sound of silence”.
-Simon & Garfunkel –
Sono queste le parole di una delle canzoni più belle di tutti i tempi, “Sound of Silence“, che ci fanno pensare all’intera carriera di Tim Duncan, e a quei cambiamenti che è riuscito ad apportare in campo nel corso degli anni. Un uomo che nel silenzio ha costruito tutti i suoi successi e del silenzio si è servito per cambiare e crescere. Una carriera dedicata a questa visione silenziosa: riscrivere la storia dello sport nell’ignoranza generale, lasciandosi precedere dalle stelle di ciascuna delle tre decadi in cui ha giocato, quasi fedele all’idea ciclistica che raramente i velocisti, portano a casa il premio più ambito a fine competizione.
Per capire quest’uomo fuori da ogni tempo e ogni luogo, così criptico e inaccessibile, servirebbe un Umberto Eco del basket, un uomo dalla grande mente in grado si spiegare perchè qualcuno ricollega la faccia di Duncan a quella di Anton Chigurh (il killer spietato di Non è un paese per vecchi), oppure alla faccia spaventosa di Javier Bardem nel film dei Cohen.
E ancora perchè sconfitta e/o successo abbiano avuto, lungo tutta la sua carriera un comune denominatore: il silenzio.
Tecnicamente, Duncan non è stato un quarto moderno, uno stretch four. Si è sempre posizionato intorno all’area, sviluppando un tiro tradizionale, con quella tabellata sull’angolo (un po’anni 70), con una visione di gioco straordinaria, geometrica, su cui gli schemi degli Spurs hanno fondato il loro essere imprevedibili. Tim non tirava da tre, non faceva lo stretch four, non immetteva chissà quali azioni da circo, eppure dominava in campo, con la sua calma, costruendo anno dopo anno una reputazione sempre più solida. Un amante del gioco, delle regole, un’amante dell’educazione sul parquèt.
1510 partite giocate in regular season senza mai darne adito per via di qualsivoglia esaltazione, 1072 vittorie, un sicario che in attacco ha messo a referto più di 26.496 punti realizzati, poco più di 15 mila rimbalzi, 5 Titoli NBA, 15 All-Star Game, in difesa più di 3 mila stoppate, nessuna delle quali accompagnata da un “Not in my house” ad un palmo di naso dall’avversario.
Tim e gli Spurs hanno insegnato che non c’è bisogno di far sapere al mondo cosa stai facendo e come lo stati facendo per sentirsi legittimati e rispettati: in fondo è più che sufficiente farlo e basta. Niente grandi proclami, e poche promesse, niente grandi storie di riscatto personale o di antagonismo. Solo una costanza così granitica, da fare più rumore di qualsiasi titolo di giornale.
Duncan ha dimostrato che si può costruire la mitologia di una dinastia senza cedere alle lusinghe della grande esposizione mediatica, che si può dominare solo quando si è rispettati da tutti sforzandosi di rimanere umili a tutti i costi, che si può vincere a passo d’uomo in punta di piedi.