Calcio, football, soccer. Chiamatelo come volete, la sostanza è la stessa: è lo sport più famoso del mondo e quello che, nel bene o nel male, è in grado di influenzare milioni, se non miliardi di persone.
In paesi a forte stampo calcistico, è impossibile non venire a contatto con questo sport; in Italia, ad esempio, è ormai una tradizione consolidata regalare un pallone appena arrivati all’età per poterci giocare, e la prima cosa che ti insegnano è a calciarlo, non a prenderlo in mano, a lanciarlo ecc.
Il continuo contatto con questo gioco al quale, bene o male, siamo quasi costretti ad imparare un minimo a giocare, a meno che uno non voglia passare da solo l’intervallo a scuola, di certo influenza non poco lo sviluppo psico-fisico dei ragazzi, portandoli ad interpretare il movimento intorno ad un pallone in una certa maniera.
La cultura sportiva americana, che in maniera del tutto controcorrente rispetto al resto del mondo ha deciso di inventarsi i propri sport (baseball, basketball, football americano…), non ha ritenuto necessario lasciare spazio al cosiddetto “soccer”, snobbato in tutti i 50 stati e lasciato come sport da far praticare alle ragazze. Solo l’organizzazione dei mondiali nel 1994 (ricordi duri per noi italiani), nonostante il non brillantissimo rigore tirato da Diana Ross alla cerimonia d’apertura, ha portato il calcio nel “pianeta USA”, che negli ultimi anni sembra aver preso piede nel paese a stelle e strisce.
Con la massiccia migrazione di giocatori europei nella NBA, nella maggior parte dei casi con ottimi risultati in termini di livello e qualità di giocatori, è sorta spontanea la domanda ai giornalisti ed analisti americani: è possibile che, in qualche modo, il provenire da una background calcistico, chi più chi meno, possa influenzare anche il modo di giocare a basket, permettendo ai giocatori non-americani di vedere il gioco in maniera diversa rispetto agli Statunitensi?
Kobe Bryant, pluricampione et MVP in NBA, nato negli Stati Uniti ma che ha trascorso tutta la sua gioventù in Italia, a seguito del padre a Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e infine Reggio Emilia, ha provato a dare una risposta a questa domanda, essendo egli stesso cresciuto in un ambiente che, oltre al basket, gli ha permesso anche di esprimersi giocando a calcio:
“Nella maggior parte dei casi, il basket americano è pensato come un gioco a due: pick’n’roll, dai e vai, cose così. Crescendo giocando a calcio, vedi il gioco in combinazioni di tre, anche quattro – e come giocare con i triangoli”
Riesci a vedere e cose in più combinazioni, e giocare a calcio a quella età (ancora in fase di sviluppo) ha abituato i miei occhi ed il mio cervello a vedere certe situazioni come combinazioni di tre o quattro, non solo di uno o due.”
Concorda con lui anche il grande Tex Winter, perfezionatore, se non inventore, della Triangle Offense che ha reso grandi le squadre di Phil Jackson, Bulls prima e Lakers poi; secondo Winter, che non è mai venuto in contatto con nessuna forma di soccer in vita sua, se non averlo visto giocare da altri, il calcio è molto simile alla sua idea di basket, fatta di triangoli.
“È un gioco di geometria. Spaziature, distanze, linee rette. Giocano da un lato e d’improvviso il gioco si sposta sull’altro, proprio come facciamo noi con il nostro attacco triangolo.”
Considerato, quindi, che il giocare a calcio prepara anche i futuri cestisti ad essere più inclini a ragionare prima di prendere l’iniziativa, con la pazienza che contraddistingue un ragionato sistema offensivo calcistico, non è sorprendente vedere come il basket europeo sia molto più tattico e giocato a metà campo rispetto al basket d’oltreoceano.
Oltre ad un’influenza tattica, il calcio è molto importante anche nello sviluppo fisico dei giocatori, in primis, ovviamente, il gioco e la velocità di piedi, fondamentali più che mai nel basket. Steve Nash, grande appassionato di calcio che in gioventù si è dilettato anche in questo sport, ha rivelato che – quando iniziò a giocare a basket – aveva già una velocità di piedi molto più sviluppata rispetto ai suoi compagni di squadra; lo stesso dicasi per Hakeem Olajuwon, che ha fatto tesoro dei suoi trascorsi calcistici in Nigeria per sviluppare al massimo il gioco di piedi in post che lo ha poi reso famoso ed immarcabile.
A livello tecnico, il più noto nella NBA per non aver mai nascosto quanto il calcio abbia aiutato il suo stile di gioco è Manu Ginobili, giocatore tra i più creativi; riesce a vedere linee di passaggio anche dove sembrano non esservi, pensa fuori dagli schemi, in maniera diversa da tutti gli altri, riesce sempre ad avere un ampia visione del campo, ed a detta sua tutto questo lo ha ereditato dall’aver giocato a calcio.
Oltre ai lati puramente tecnici e fisici, c’è anche una innegabile questione di mentalità che accomuna tutti i cestisti con una passato calcistico. Come ha rivelato Mike D’Antoni, che ha trascorso più di 20 anni in Italia tra giocatore ed allenatore, la cultura calcistica è diversa da quella americana in un punto fondamentale: per i calciatori, ma soprattutto per chi segue il calcio, è più importante la squadra del singolo giocatore.
“La loro cultura apprezza non soltanto il marcatore, ma anche chi ha fatto l’assist, e chi ha passato la palla a quello che ha fatto l’assist, e il giocatore che ha fatto un movimento per smarcare un suo compagno.
Non apprezzano soltanto il gol, ma anche il lavoro che c’è stato dietro; da chi ha recuperato palla a chi ha finalizzato, tutti sono equamente importanti, e questo per me è fondamentale.”
È per questo, forse, che i grandi giocatori europei sono più portati ad un gioco di squadra rispetto agli Americani; pensando a giocatori come Parker, Gasol, Nowitzki, o gli stessi italiani in NBA, notiamo come siano più portati a sostenere il gioco di squadra che la prestazione individuale: che questo, poi, li valorizzi o li penalizzi nel mondo sportivo americano è tutto un altro discorso.
Ovviamente, tutte queste non sono altro che idee o supposizioni, altrimenti come potrebbe essere che sono gli Statunitensi a dominare questo gioco? Un fondo di verità, però, credo ci sia. D’altra parte, sono due culture diverse a scontrarsi e, volenti o nolenti, il calcio rappresenta una grossa fetta della cultura mondiale, europea, e in particolare italiana, e di certo un modo di vedere il gioco (e il mondo), diverso, potrà solamente migliorare quello che da essere un gioco americano per gli americani, sta sempre più diventando un global game.
Andrea Radi