Padre inglese. Madre gallese. Nato in Sudafrica, ma canadese di nazionalità, essendosi trasferito a Victoria, nella British Columbia, a soli 18 mesi.
Un bel frullato di culture e abitudini, una miscela vincente, che ha caratterizzato la vita di Steve Nash, un uomo cresciuto in una famiglia in cui lo sport era quanto di più appassionante potesse esserci, un qualcosa per la quale valesse la pena vivere da giramondo.
Non è dunque strano che sin da piccolo, Steve, dimostri una notevole propensione per l’attività sportiva. Nash riesce in tutto, nonostante non sembri avere doti atletiche eccezionali. Impara a praticare svariate discipline, semplicemente imitando ciò che vede dal vivo o in televisione.
Va letteralmente pazzo per Hulk Hogan, stella della WWE; ama gli scacchi, che esaltano le sue capacità di analizzare e valutare le situazioni, un po’ come anni dopo con la palla a spicchi in mano.
E poi c’è il calcio, lo sport di papà, il mestiere per colpa e grazie al quale avevano vissuto da globetrotter. Si dimostra sin da subito molto bravo, ha velocità e senso del gioco, un qualcosa che tendi a prevedere se il regalo al tuo primo compleanno è un pallone da prendere a pedate.
Avrebbe senza dubbio reso fiero il suo “vecchio” scegliendo la carriera da calciatore, ma nella testa di Steve c’è altro. Non vuole limitarsi.
Non disdegna il Lacrosse ed il rugby, ed inoltre, come ogni bambino canadese che si rispetti, segue attentamente l’hockey su ghiaccio. I Vancouver Canucks sono il suo team preferito, l’idolo indiscusso Wayne Gretzky. Un esempio da seguire.
Piccolo di stazza e sottovalutato, aveva lavorato come un matto, fino a diventare il giocatore più produttivo nella storia della NFL.
Così Steve pensa a se stesso: sottodimensionato, svantaggiato, ma astuto e razionale a tal punto da diventare il migliore. Occorre solo decidere in quale sport.
Proprio in quel periodo scopre il basket, e decide il suo futuro: star NBA. Non esattamente il percorso più facile considerando il suo fisico e la non eccelsa tradizione cestistica canadese.
Inizia così a lavorare duramente a St. Michaels con coach Ian Hyde Lay. Migliora anno dopo anno, chiudendo la stagione senior con 21.3 punti di media. Ritiene di esser pronto per il grande salto, ma nessun college gli da la chance di giocare al massimo livello; Arizona, Duke, Indiana, Maryland e Villanova rispondono “No grazie” a tutte le lettere di candidatura scritte dal coach.
Steve non batte ciglio. Si limita a prendere una scatola per scarpe e vi ripone tutti i rifiuti. Quella stessa scatola che tiene ora in bacheca, accanto ai trofei di MVP NBA.
Fa dunque le valigie e si trasfersce a Santa Clara, a circa un’ora da San Francisco. Quella gesuita infatti è l’unica università ad interessarsi al giovane playmaker.
Steve si impegna molto nello studio e nello sport. Se non è in classe, puoi trovarlo in palestra. Se non un libro, in mano ha la palla da basket. Nel raro caso in cui non ha a che fare con la a palla spicchi o vecchi manuali, probabilmente è alle prese con una pallina da tennis, palleggiando per migliorare il ball handling.
Cresce a dismisura. A fine stagione Nash non solo conduce i Broncos alla March Madness, ma li guida anche oltre il primo turno, dopo una storica vittoria sugli Arizona Wildcats. Quell’impresa rimane isolata, ma vale al canadese la ribalta nazionale.
Da quel punto in poi, appare chiaro che diventerà professionista, deve solo decidere quando. Si laurea in psicologia e finisce bene la carriera cestistica universitaria.
Il momento giusto arriva nel 1996, quando viene selezionato dai Suns.
Nonostante le ottime prestazioni al college, Nash non giocava in una Conference importante, dunque i fans non apprezzano particolarmente la sua scelta. Inoltre nei primi due anni NBA gioca pochissimo, facendo da riserva prima a Kevin Johnson e Sam Cassell e poi a Jason Kidd. Tutti giocatori di un livello ben superiore al suo in questo periodo.
Pian piano riesce comunque a farsi notare, venendo candidato a Most Improved Player of the Year nel secondo anno di professionismo.
Dopo il Draft NBA 1998 però, è chiaro che i Suns non sono il posto giusto per lui, e viene ceduto ai Mavericks.
Decisivo nella trade è l’assistant coach Donnie Nelson che aveva già conosciuto Steve a Santa Clara, figlio dell’head coach dei Mavs, Don Nelson.
Dopo una prima stagione così e così, in Texas si afferma definitivamente. Nello stesso periodo la squadra viene prelevata dall’imprenditore Mark Cuban, che vuole portare la franchigia ai vertici della lega. Parte così la caccia al titolo, la squadra si rinforza. Nel 2000-01 i Mavs tornano ai playoff dopo più di 10 anni, e Nash entra per la prima volta all’All Star Game. Accanto a lui inizia a brillare la stella di Dirk Nowitzki, giovane tedesco dal tiro infallibile.
Ai playoff però, Dallas trova sempre qualcuno in grado di sopraffarla: Sacramento e San Antonio un paio di volte spengono le velleità di Steve.
Si chiude così senza trionfo la meravigliosa avventura in Texas di Nash. Durante le trattative di rinnovo, Cuban gioca al ribasso, deciso a costruire la squadra intorno al giovane Nowitzki, e non volendo rischiare di occupare troppo spazio salariale, facendo firmare a un trentenne un contratto a lungo termine.
Nash accetta l’offerta dei Suns e torna a Phoenix.
I media lo amano, e lo inseriscono nell’NBA All-Interview First Team, uno speciale premio ai più disponibili coi giornalisti.
Phoenix secondo capitolo, non è però una missione facile. La squadra è reduce da un imbarazzante record di 29-53. La leadership ed il carisma di Nash però contribuiscono a sovvertire le previsioni di un’annata senza gloria, portando i Suns a un record di 62-20 (il migliore della stagione) e una media di 110,4 punti a partita.
A fine stagione diventa il primo canadese nella storia a vincere il titolo di MVP. Un riconoscimento che gli viene conferito anche la stagione successiva e che sfiora nel terzo anno in Arizona.
La franchigia diventa concorrente fissa ai playoff, ma come nell’esperienza di Dallas, Nash non va mai oltre la finale di Conference. La bestia nera è San Antonio che elimina 3 volte in quattro anni i Suns.
Dopo 2 premi MVP, 5 premi di miglior passatore della lega, 3 presenze nell’NBA All-Star First Team ed 8 convocazioni all’All Star Game, il canadese supera quota 15.000 punti in carriera nel 2010. Tutti premi individuali che lo soddisfano però solo in parte, convincendolo a puntare in alto, a quel titolo NBA che i Lakers di Kobe possono dargli.
Il 4 luglio 2012 firma così un contratto sign-and-trade con i Suns e viene ceduto ai Los Angeles Lakers.
Il suo numero 13 è stato ritirato in onore di Chamberlain, dunque si presenta col 10, come i fantasisti ed i fuoriclasse dello sport che più ama oltre al basket.
Ai nastri di partenza i gialloviola sono i grandi favoriti per l’anello, presentandosi con un roster di primo ordine. I volti di Nash, Bryant, Gasol, Metta World Peace e Dwight Howard scorrono su ogni programma tv che parli di Nba, la città degli angeli è tappezzata di cartelli e manifesti che prevedono “un’ottima annata”.
Tuttavia l’avventura californiana non riserva gioie nè per Nash nè per gli altri, rivelandosi molto più negativa del previsto. La squadra arriva ai playoff per il rotto della cuffia, ma viene eliminata con un’umiliante 4-0 al primo turno, per mano degli Spurs. Ancora loro, un’autentica maledizione per Steve.
Al di là di questo, l’esperienza del canadese è caratterizzata da infortuni e tanti altri segnali dell’età che avanza. Si fa male gravemente e salta 30 partite. Al rientro non è lo stesso, e torna ad infortunarsi a più riprese, sino al ritiro.
Chiude così la sua carriera, senza anello. A dimostrazione che a volte, non sono i titoli a descrivere con esattezza la grandezza di un giocatore.
D’altronde, direbbe lui, nemmeno i suoi amici Alex Del Piero, Thierry Henry e David Beckham hanno mai vinto il pallone d’oro…