Carmelo Anthony è uno dei più forti giocatori della NBA“. Questa affermazione, che può apparire scontata e lapalissiana, è tuttavia meno condivisa di quanto, a mio giudizio, dovrebbe.

Quella cominciata pochi giorni fa, è per Melo la stagione numero 12 della sua carriera, e la sesta con la maglia dei New York Knicks. Nelle 11 precedenti, Anthony ha viaggiato alla clamorosa media di oltre 25 punti a partita; anche chi, come me, non è un fan accanito delle statistiche, può facilmente rendersi conto di come questo sia un dato surreale.

Per rispondere alla domanda del titolo, sarebbe sufficiente pensare che un guru del gioco come Phil Jackson, che da marzo 2014 presiede la franchigia della Grande Mela e che un paio di stelle durante la sua leggendaria carriera le ha allenate, ha deciso di riporre l’intero futuro della sua squadra nelle mani di Anthony, offrendogli, nel 2014, un quinquennale da 124 milioni di “pezzi in verde“. L’ipotesi di una risposta affermativa, dunque, merita credito.

Phil Jackson, James Dolan, executive chairman of the Madison Square Garden Company

Ma cerchiamo di entrare in maniera più analitica nella questione. Anthony è un’ala di 109 kg spalmati su un corpo di 203 cm, con una versatilità offensiva fuori dalla norma: può giocare sia fronte che spalle a canestro, è micidiale da dietro l’arco e tramite la sua potenza fisica riesce ad andare con altissima frequenza in lunetta, dove converte in punti, mediamente, circa l’85% dei tiri liberi. È la più classica delle macchine da punti.

Tuttavia, la pallacanestro di Carmelo, come quella di ogni giocatore, presenta anche dei lati oscuri. La principale critica che gli viene frequentemente mossa è quella di riuscire a coinvolgere poco i compagni di squadra, e di avere uno stile di gioco eccessivamente accentrativo e finalizzato all’isolamento. Tali critiche hanno un fondo di verità: ciò è ampiamente testimoniato dai soli 2.8 assist di media in carriera, certamente poco per uno che ha così tanto il pallone in mano; va detto, però, che dopo gli anni a Denver, col passaggio ai Knicks non ha più avuto la possibilità di giocare in un vero e proprio “sistema offensivo di continuità“.

Questo è, a mio modo di vedere, un requisito fondamentale per ogni squadra da titolo nella storia “recente” della NBA.

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Pensiamo a Jordan e Lebron, certamente due dei migliori interpreti del gioco di tutti i tempi: sono due vincenti ma, per lungo tempo, hanno perso, giocando un tipo di pallacanestro che potremmo definire “brado“, in cui fermavano continuamente il ritmo dell’attacco, facendo prevalere il loro debordante talento, che tuttavia li ha condotti per consistenti tratti della loro carriera ad una lunga serie di insuccessi. Il più grande merito di Jackson e Spoelstra (diciamo pure Pat Riley), è proprio questo: essere riusciti a convincere le proprie superstars del fatto che, che si chiami “motion offense“, “princeton offense” o “triple-post-offense“, le migliori parti del tuo gioco si manifestano in una pallacanestro “di ritmo; va da se che, quando a roster hai gente col talento di Scottie Pippen o Dwyane Wade, tale passaggio è estremamente meno tortuoso.

Eccola dunque la scommessa di Phil Jackson: creare un sistema attorno a Melo, e far si che lo stesso Melo si fidi di quel sistema. Alcuni tasselli del puzzle sono stati inseriti questa estate: Robin Lopez e Arron Afflalo sono due ottimi “role-players”, ed il rookie Porzingis ha tutte le carte in regola per divenire un All-Star. Se le cose prenderanno la piega che il front-office di NY si aspetta, probabilmente nel giro di un paio d’anni potremmo rivedere la gloriosa franchigia dei Knickerbockers al posto che di diritto le spetta, ossia ai vertici della Eastern Conference.

Ultimo appunto: da chi era composto il roster di Syracuse campione NCAA nel 2003? Anthony e poi? Nessuno di quei giocatori è stato un professionista, fatte salvo per un paio di comparsate in D-League. Anche questo è un indizio confortante per Carmelo che, giunto ormai ai 31 anni d’età, ha, purtroppo per lui, ancora poche chance di infilarsi un anello al dito. Io e Phil Jackson ci crediamo, e voi?