FINALS 2015 – Prima di buttare giù un pezzo riguardante le ultime Finals NBA, ho cercato di leggere qualche articolo qua e là, non per farmi condizionare, giusto per capire il pensiero di tutti gli appassionati e per cercare di essere il più obiettivo possibile. Per tutto quello che è successo in queste sei gare di finale, di certo non è facile, sfido chiunque, disegnare un’analisi coerente sui fatti appena accaduti.

Una premessa è d’obbligo. Prima di gara-1, qualsiasi amante del gioco viene posto davanti ad un bivio: tifare per i Warriors, la miglior squadra dell’intera Lega capitanata dall’MVP della RS Stephen Curry, oppure tifare per i Cleveland Cavaliers del figliol prodigo Lebron James, appena ritornato a casa, già ritornato alle Finals (e sono 5 di fila).

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Una volta presa questa “decision” è davvero difficile mantenere i binari dell’obiettività completa perché, in qualche modo, si tenderà ad essere fuorviati da quel senso di appartenenza verso una squadra, un giocatore o allenatore che sia, spesso riconosciuto come “fede sportiva”, che in un dualismo, ti farà, fisiologicamente, prendere una parte a discapito della concorrente.

Io, da quando seguo questo fantastico giochino, tifo per il numero 23 in maglia Cavs, ei fu numero 6, mi affascina la sua storia, ammiro la dedizione, il coraggio, la leadership, la sicurezza e la sfrontatezza (a volte) con cui cerca di diventare il GOAT di questo sport, spesso con tutto il mondo contro.

Non una sfida qualunque, quella di Lebron. Tutt’altro che facile e ai limiti dell’impossibile. Ma lo sport è anche questo e soprattutto, nello sport, “impossible is nothing”, vedi gara 2 e 3 del signor Matthew Dellavedova, giusto per trovare un fresco esempio.

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Detto questo, sono del parere che nella storia ci sarà sempre una Golden State (squadra vincente) e una Cleveland (squadra perdente), ma, mai come nel caso di queste Finals, bisogna rendere merito e grazia sicuramente ai Warriors campioni sì, ma questa volta, non solo a loro…

Le pagine di storia, fisica, matematica o scienze che siano, che ha scritto Lebron James in queste finali non possono passare inosservate e soprattutto non possono cadere nell’oblio della sconfitta come se mai fossero accadute. Non ci si ricorda mai degli sconfitti nello sport, è vero. Solo i vincenti restano negli annali sportivi e negli albi d’oro delle competizioni di qualsiasi sport prendiate in considerazione.

Ma non omaggiare il Re per queste fantastiche sei lezioni di basket, mi sembra peccare di lesa maestà. Che tu sia lover o hater bisogna avere l’intelligenza di riconoscere la cosiddetta “greatness” di quest’uomo, di questo giocatore che ha speso qualsiasi fonte di energia, fisica e mentale, per raggiungere l’obiettivo desiderato.

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E, a mio parere, non c’è più vittoria o sconfitta che tenga, quando hai dato tutto quello che avevi, quando hai provato ad andare oltre i tuoi limiti e oltre quelli dei tuoi compagni. Non ho intenzione di snocciolare statistiche o record superati dal numero 23, questi sono sotto gli occhi di tutti, ma volevo evidenziare la “leadership” di questo mostro sacro della palla a spicchi.

La sola sua presenza sul parquet psicologicamente ti intimorisce, cancella le tue sicurezze se sei suo avversario. Se sei suo compagno la sua determinazione, ambizione e convinzione invece ti avvolgono, ti coinvolgono a credere “fottutamente” in quello che crede lui.

Secondo voi perché Dellavedova ha giocato in questo modo in questi playoffs? Perché è un campione? No, assolutamente. Ha sposato la causa del Re, ha voluto provare a superare i propri limiti, ci ha creduto nel sogno di un titolo impossibile, anche quando tutto sembrava perduto. Ha seguito l’esempio di un ragazzo, just a kid from Akron (ricordiamolo), che ha tentato l’impresa impossibile.

matthew-dellavedova-iman-shumpert-nba-playoffs-atlanta-hawks-cleveland-cavaliers-850x560-e1434674831594Questa che ha captato Delly è pura “leadership“, quell’aura che trasmette il tuo capitano, la tua guida, il tuo Virgilio in un campo da basket. La sua forza di volontà diventa la tua, di Delly stesso, di Shumpert, di Mozgov, di Tristan e di tutti gli altri. Sì, anche di Mike Miller, che in quei pochi spiccioli di partita che ha giocato, ha dato tutto per il suo Re.

Credo che le finali giocate dal Prescelto valgano almeno come due titoli vinti (prendetemi pure per pazzo). Le giocate, offensive o difensive, personali o di squadra, meritano di restare impresse negli occhi di tutti. La rabbia, la forza di volontà, il sacrificio, il sudore, la voglia di vincere, le parole, tutto quello che Lebron James ci ha messo per tentare l’impresa più assurda di sempre, per me, equivalgono ad una vittoria.

Lui più 5/6 giocatori normali hanno vinto 2 partite, una alla Oracle Arena, contro la squadra più forte della Lega, contro gli Splash Brothers, contro l’MVP delle Finals Iggy, contro coach Kerr (5 volte campione NBA da giocatore), contro Green e Barnes per non parlare di Livingston e Barbosa, contro il miglior attacco e la miglior difesa di tutta la NBA, senza Irving, Love e metteteci anche Varejao se volete, realizzando quasi una tripla doppia di media. 

635699866430381557-USP-NBA-PLAYOFFS-GOLDEN-STATE-WARRIORS-AT-CLEVELA-73676310Se tutto questo non equivale ad una vittoria, allora, forse, non abbiamo capito la vera essenza di queste 6 partite.

Il basket è e resterà per sempre un gioco di squadra. Lo spirito di gruppo batterà sempre l’individualità, come un miglior attacco batterà sempre una miglior difesa.

In queste sei partite siamo stati testimoni del concetto di “solo sull’isola” estremizzato ai massimi livelli perché Lebron James ha combattuto contro un’intera armata quasi 1 contro 5. E ne è uscito sconfitto, com’è giusto che sia.

Ma dobbiamo omaggiarlo e ringraziarlo se abbiamo avuto una serie finale combattuta ed equilibrata fino alla fine, nonostante le defezioni che hanno sicuramente condizionato tutti i Cavs, a prescindere dalla nostra fede cestistica.

Golden State Warriors vs Cleveland James 4-2. Ancora una volta, da solo. Contro tutti e contro molti che hanno goduto nel vederlo arreso con l’asciugamano in testa. Ma non è il momento di essere tristi. E’ il momento di ricordare le pagine di onnipotenza appena scritte, ancora impresse nella mente chi ha fatto nottata per veder giocare Lebron James.

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Lebron è patrimonio del basket cosi come lo è Michael Jordan, come Maradona e Messi sono patrimonio del calcio.

Dovremmo essere un po’ tutti più riconoscenti nei suoi confronti, dovremmo apprezzare quello che fa in campo e fuori, dobbiamo ammirare le sue immense qualità, dovremmo più prendere esempio da lui, piuttosto che criticare gratuitamente.

Quel ragazzo che da quando aveva 15 anni, con tutto il mondo sulle spalle, rappresenta una città, uno stato, probabilmente una disciplina sportiva. Un ragazzo che ha vinto lo stesso perché non si è arreso mai alla forza degli avversari o alle critiche del mondo intero, anzi, ha sempre sorriso, ignorando i detrattori e dominando sul parquet ad ogni maledetta allacciata di scarpe.

E allora è vero che si può vincere anche nella sconfitta… per cui lunga vita al Re!

Niccolò Pascale